di Luca Marfé
«È la fine della mia presidenza, la cosa peggiore che mi sia mai accaduta. Stavolta sono fottuto».
Maggio 2017, Trump riceve la notizia della nomina a procuratore speciale per le indagini sul Russiagate di tale Robert Mueller. Alle latitudini di Washington, uno considerato esperto, tosto e incorruttibile. Le sue parole di allora lo collocano, dunque, giusto a metà tra disperazione e rabbia.
Queste sono soltanto due righe delle quattrocento pagine del rapporto che,
di Luca Marfé

«È la fine della mia presidenza, la cosa peggiore che mi sia mai accaduta. Stavolta sono fottuto».

Maggio 2017, Trump riceve la notizia della nomina a procuratore speciale per le indagini sul Russiagate di tale Robert Mueller. Alle latitudini di Washington, uno considerato esperto, tosto e incorruttibile. Le sue parole di allora lo collocano, dunque, giusto a metà tra disperazione e rabbia.

Queste sono soltanto due righe delle quattrocento pagine del rapporto che, finalmente, viene pubblicato nella sua versione integrale. E dato in pasto al Congresso che si spacca tra politica e tribunali, tra sbadigli di indifferenza e smanie di impeachment.

Già sintetizzato in una relazione del ministro della Giustizia William Barr, e comunque secretato in alcune sue parti per ragioni legate alla sicurezza nazionale, il Mueller Report torna di colpo in primissimo piano ed esplode come una bomba al centro della campagna elettorale 2020, assieme a Putin, Russia e Russiagate.

La verità è che di enorme non emerge nulla, grosse novità non ce ne sono.

Trump e i suoi fedelissimi hanno avuto svariate occasioni di contatto con Mosca e dintorni, ma di reati veri e propri non c’è traccia. Se non quella ostruzione alla giustizia cui il tycoon potrebbe aver dato luogo con alcuni suoi comportamenti che, tuttavia, non trovano appigli di concretezza.

In buona sostanza, il quadro è pressoché identico rispetto a quello dipinto dalla sintesi firmata da Barr circa un mese fa.

Nessun complotto, nessuna collusione. Quanto meno, niente che possa essere provato.

Resta lo stesso, infine, anche lo scenario di una politica divisa, soprattutto a sinistra.

Di una parte, cioè, che spera ancora nella scorciatoia giudiziaria per inguaiare Trump.

E, dall’altro lato ma sempre nella metà democratica, di una platea stanca di questa narrativa alternativa e ripetitiva con cui la sconfitta dem del prossimo anno è praticamente cosa certa.

Dal canto suo, The Donald se la ride e, sul solito Twitter, la chiude con un «Game Over» in stile Trono di Spade.

Nulla da fare, bisognerà pur farsene una ragione: non è fottuto.

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