di Luca Marfé
Il D-Day, l’Operazione Overlord, alla lettera quella del “Signore Supremo”. Il capolavoro di mezzi, uomini, muscoli, coraggio e depistaggio con cui gli Stati Uniti invasero la Normandia mossi dall’obiettivo di liberare la Francia prima e l’Europa intera poi.
I britannici erano cauti, gli americani no. Erano addirittura impazienti.
E allora eccola: via ad una delle più grandi manovre militari di tutti i tempi. Una di quelle che avrebbero dato un senso nuovo alla parola “Libertà”.
di Luca Marfé

Il D-Day, l’Operazione Overlord, alla lettera quella del “Signore Supremo”. Il capolavoro di mezzi, uomini, muscoli, coraggio e depistaggio con cui gli Stati Uniti invasero la Normandia mossi dall’obiettivo di liberare la Francia prima e l’Europa intera poi.

I britannici erano cauti, gli americani no. Erano addirittura impazienti.

E allora eccola: via ad una delle più grandi manovre militari di tutti i tempi. Una di quelle che avrebbero dato un senso nuovo alla parola “Libertà”. Scritta proprio così, con quella iniziale maiuscola dedicata alle generazioni che nell’Europa piegata al nazi-fascismo non erano ancora venute, ma che un giorno, un giorno che è anche e soprattutto oggi, avrebbero ringraziato degli eroi sconosciuti, ma immortali. Veterani vivi e soldati morti, ciascuno parte delle fondamenta democratiche su cui il Vecchio Continente è risorto, libero dalle catene delle sue dittature.

Una rivoluzione: era il giugno del 1944.

Che cosa resta, dunque, 75 anni dopo?

Resta la voce ferma di Donald Trump, presidente divisivo, ma rappresentativo dei vincitori di quel tempo. Con lui le sue parole:

«Non sapevano neanche se sarebbero sopravvissuti per un’altra ora. Non sapevano se sarebbero invecchiati. Ma sapevano che l’America doveva farcela. La loro causa era questa Nazione e tutte le generazioni che non erano ancora nate».

Resta l’emozione del suo abbraccio sincero con Emmanuel Macron, prevale l’intelligenza dei due nell’accantonare le divisioni più aspre al cospetto del passato, dell’alleanza e dell’amicizia che devono restare comunque, a prescindere dalle vie della politica.

Resta l’aplomb di Theresa May che paradossalmente ha fatto coincidere l’annuncio delle sue dimissioni con il meglio di sé. Posizioni da statista, toni da brividi:

«Se di un giorno può essere detto che ha determinato il destino delle generazioni a venire in Francia, in Gran Bretagna, in Europa e nel mondo, quel giorno è stato il 6 giugno 1944».

Resta anche qualche paura, con Vladimir Putin lontano e in cattiva compagnia, tra le mura dei suoi palazzi di San Pietroburgo con l’omologo cinese Xi Jinping. Il primo non sarebbe stato invitato, ma in realtà nulla ha fatto per essere coinvolto. Il secondo è persona colta, riflessiva e persino affascinante, ma evidentemente intento a divorare lo scacchiere internazionale tra economia e tecnologia. Entrambi insomma, senza scomodare il termine “dittatori”, non sono da annoverare tra i fan di queste commemorazioni e, aspetto assai più grave, della democrazia in generale.

Un nuovo pericolo? Forse.

Una nuova frattura tra due mondi diversi? Senz’altro.

Resta il ricordo, misto alla gratitudine.

Restano i rischi.

Resta la più grande lezione della Storia: che vorrebbe concedersi il lusso di ripetersi senza che con lei si ripetano i suoi errori e i suoi orrori.

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