di Luca G. Castellin
Quando, il 17 aprile 1985, Gianfranco Miglio si trovò a dover commemorare Carl Schmitt, scomparso una decina di giorni prima, quasi all’età di cento anni, dopo una tempestosa e feconda esistenza, l’autore comasco non si sottrasse dal celebrare la figura di colui che già in passato aveva definito «il grande vegliardo della politologia europea». «La grandezza di Schmitt», osservò in quell’occasione, «sta nel fatto che i traguardi scientifici da lui raggiunti,
di Luca G. Castellin

Quando, il 17 aprile 1985, Gianfranco Miglio si trovò a dover commemorare Carl Schmitt, scomparso una decina di giorni prima, quasi all’età di cento anni, dopo una tempestosa e feconda esistenza, l’autore comasco non si sottrasse dal celebrare la figura di colui che già in passato aveva definito «il grande vegliardo della politologia europea». «La grandezza di Schmitt», osservò in quell’occasione, «sta nel fatto che i traguardi scientifici da lui raggiunti, proprio perché corrispondenti a altrettanti alti problemi, costituiscono porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica». «Quasi ogni sua teoria», aggiunse infatti, «suggerisce nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero».

Pur non avendolo mai conosciuto personalmente, dal momento che il loro rapporto era sorretto da uno sporadico scambio epistolare, la morte del pensatore tedesco privava Miglio di un interlocutore con cui aveva intrattenuto per quasi metà secolo un confronto intellettuale decisivo. Un fondamentale contributo a riscoprire le tappe principali di un tale confronto è oggi offerto da una raccolta di saggi che ripercorre il dialogo a distanza che il politologo comasco aveva intessuto con le ipotesi di Schmitt (G. Miglio, Carl Schmitt. Saggi, a cura di Damiano Palano, Scholé, Brescia 2018). Un volume che, grazie soprattutto alle pagine della densa postfazione del curatore, mette in luce i termini con cui Miglio ‘leggeva’ Schmitt, forzando talvolta alcuni aspetti della sua riflessione, in qualche caso tralasciandone altri, al fine di raccogliere le pietre necessarie alla fondazione di quella «teoria pura» della politica, che rappresentò lo ‘scopo’ dell’avventura intellettuale di colui che per un trentennio, dal 1959 al 1989, fu Preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

A partire dalla celebre Presentazione alle Categorie del ‘politico’ del 1972 fino al necrologio scritto per «Il Sole 24 Ore» nel 1985, i saggi contenuti nella raccolta, da un lato, costituiscono una importante testimonianza della ‘riscoperta’ (o, in un certo senso, della vera e propria ‘scoperta’) del pensiero di Schmitt in Italia, di cui Miglio fu – per molti versi – il primo ‘interprete’, dall’altro, rappresentano invece l’evidente segnale di una divergenza che, nel proprio tentativo di costruire una teoria in grado di spiegare il vincolo alla base di ogni comunità politica, avrebbe spinto lo stesso Miglio a ‘incorporare’ (alcune) ipotesi del giurista di Plettenberg nel tentativo di procedere «oltre Schmitt».

Se, all’inizio degli anni Settanta, la pubblicazione presso Il Mulino di un’antologia di alcuni dei principali scritti schmittiani possiede il pregio di aver riaperto le porte del nostro Paese alle ipotesi dell’autore del Begriff des Politischen, ben presto in grado di attirare l’attenzione di alcuni dei più originali esponenti del marxismo radicale, come Mario Tronti e Massimo Cacciari, l’importanza delle celebri pagine di presentazione al volume è ancora più ampia nell’ambito dell’avventura intellettuale di Miglio. Esse rappresentano infatti una sorta di ‘catalizzatore’ di un processo di revisione concettuale già in atto nella riflessione dello studioso comasco. Vengono così definitivamente ribaltate le ipotesi alla base del «grande progetto» giovanile della Humana Respublica, avviato con la tesi di laurea ed edificato sull’idea che il diritto riuscisse a ‘imbrigliare’ la realtà più cruda della politica, sul quale ormai anche Miglio mostrava ben più che qualche perplessità. Inoltre, adottando quella che definì la «scoperta veramente copernicana delle ‘categorie del politico’», Miglio inizia a modificare in maniera sostanziale la prospettiva analitica, focalizzando la propria attenzione non più sull’esterno, ossia sulle relazioni tra Stati, bensì sull’interno delle sintesi politiche.

Ma, a ben guardare, già nello scritto del 1972, è possibile scorgere – come sottolinea giustamente Palano – una iniziale (seppur non marginale) divergenza tra le ipotesi di Schmitt e quelle di Miglio. Quest’ultimo, infatti, non soltanto sottolinea criticamente la riluttanza del giurista di Plettenberg «a intendere lo ‘Stato moderno’ come una soltanto delle manifestazioni della politicità», ma delinea altresì esplicitamente il progetto di una nuova scienza dei fenomeni politici, in cui la contrapposizione fra amico e nemico – ‘regolarità’ costitutiva della politica – indica soltanto «l’elementare punto di partenza per tutta una serie di ricerche complementari, la rudimentale testa di ponte verso un territorio vastissimo e sconosciuto ancora da esplorare». Una nuova scienza che avrebbe dovuto porre al centro delle proprie analisi due obiettivi specifici: da un lato, quello di individuare la «struttura dell’obbligazione politica e della ‘sintesi’ che pone in essere», dall’altro, quello di ricostruire i «rapporti dinamici fra l’obbligazione politica stessa e l’obbligazione-contratto (giuridica) definitivamente separate».

Che la contrapposizione amico-nemico fosse stata inglobata all’interno di un quadro teorico più articolato, non necessariamente destinato a convergere nella stessa direzione di quello dell’autore tedesco, appare evidente in un intervento tenuto da Miglio a Padova nel 1980, nell’ambito di un convegno patrocinato dall’Istituto Gramsci. Svolgendo le premesse già enunciate nel 1972, nel pagine di Oltre Schmitt, lo studioso comasco tratteggia il disegno complessivo di quella «teoria pura» della politica che ambiva a costruire. Nel constatare la crisi dello Stato moderno, e il suo (più o meno prossimo) superamento, Miglio si propone di condurre la teoria politica «in un territorio a Schmitt sconosciuto», in cui i rapporti politici non avrebbero più dovuto essere ridotti a schemi giuridici. Nel quale, in altri termini, il problema fondamentale sarebbe stato rappresentato dallo studio del rapporto tra due tipi opposti di vincolo sociale, ossia l’«obbligazione politica» e il «contratto-scambio», che costituivano l’architrave della «teoria pura». In Oltre Schmitt, dedica poi una certa attenzione non solo ai produttori di ideologie, a quegli «aiutanti» del potere incaricati di produrre visioni alternative del futuro in grado di incidere sulla dimensione temporale dell’obbligazione politica, ma delinea anche e soprattutto l’ipotesi che a tali équipe del potere spettasse l’elargizione di una «rendita politica».

Ormai convinto della connessione tra l’obbligazione politica e la distribuzione di rendite garantite nel tempo, Miglio considera criticamente la teoria ‘spaziale’ della politica cui Schmitt era giunto all’inizio degli anni Cinquanta con la pubblicazione di Terra e mare e Il nomos della Terra, concludendo un percorso iniziato in realtà a partire dalla metà degli anni Trenta. Nel 1983, attraverso le pagine di Sul concetto di «nomos», lo studioso comasco prende così le distanze dall’ipotesi del giurista tedesco sul legame costitutivo fra terra (appropriazione di un territorio) e politica (costituzione di una comunità politica). Egli, invece, sulla scia dell’«ipotesi del cacciatore» (veicolata attraverso la fascinazione su di lui esercitata dalle ricerche di Konrad Lorenz, Edward O. Wilson, Albert Somit, e Robert Ardrey), individua il momento fondativo della sintesi politica nella divisione del bottino di guerra, ossia nella «distribuzione delle parti dell’animale catturato e ucciso, ad opera del capo caccia», riconducendo al «momento finale e saliente della ‘caccia grossa’», la «forma elementare e più antica di organizzazione ed attività politica».

L’interesse di Miglio per l’etologia e la sociobiologia, oltre che l’interpretazione del concetto di nomos, distanziavano ormai piuttosto nettamente Miglio da Schmitt, fornendo – come sottolinea Palano – «solo l’ennesima dimostrazione di come il politologo italiano avesse ‘incorporato’ la teoria schmittiana all’interno di un quadro teorico originale e ben distinto da quello dell’autore tedesco». «Nel momento in cui Miglio stabiliva un nesso originario tra obbligazione politica e distribuzione di rendite garantite», osserva ancora Palano, «finiva infatti col ricondurre il ‘politico’ non tanto a motivazioni irrazionali, quanto a meccanismi egoistici pienamente razionali e, soprattutto, del tutto interni alla logica di un utilitarismo strumentale e individualista». Cosicché, mostrando un retaggio di schietta matrice liberale, «mentre si allontanava dal giurista di Plettenberg, Miglio si mostrava coerentemente hobbesiano».

Pur se la strada ha condotto gli autori su due percorsi divergenti lungo il sentiero della «politologia concettuale», rendendo palese un dissenso assai evidente, Miglio non fu indotto nella commemorazione del 1985 a ridimensionare la statura intellettuale dell’autore tedesco, né a disconoscerne l’importanza nella propria elaborazione teorica. Nel commiato di Sulla bara di Carl Schmitt, Miglio ne riconosce «la grandezza» nella capacità di mantenere sempre le «porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica», così come nel suggerire «nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero». E, per molti versi, Miglio fa proprio l’auspicio – cercando di realizzarlo personalmente – secondo cui «il ‘dopo-Schmitt’ promette di essere ancora più vitale, più fecondo, più influente dell’età su cui il grande vegliardo ha dominato».

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