di Matthew D’Auria

Nel maggio del 1950 il ministro degli esteri francese Schumann presentava ai suoi colleghi europei il progetto che avrebbe poi dato vita alla CECA. L’idea di fondo era di mettere assieme la gestione della produzione di acciaio e carbone di Francia e Germania – vale a dire le risorse necessarie al riarmo – per evitare nuovi conflitti. Stando allo stesso Schumann, il trattato avrebbe rappresentato un primo passo nella creazione di una unione, tutta da definire, tra gli stati dell’Europa occidentale. Qualche anno dopo, il piano per la creazione della Comunità Europea di Difesa naufragava miseramente per il veto del parlamento francese, riluttante a cedere la propria sovranità in un settore così sensibile come quello militare; l’orgoglio francese della propria indipendenza e la diffidenza verso il nemico di sempre erano insormontabili. Agli europeisti non rimaneva che tornare alla logica dei piccoli passi del progetto CECA, all’integrazione di settori limitati che non richiedesse un’immediata unione politica ma che, si sperava, ne creasse in futuro la necessità; era la logica del “funzionalismo”. Il principio era semplice: l’integrazione in specifici settori dell’economia o dell’amministrazione avrebbe portato all’integrazione in aree contigue attraverso un effetto che oggi chiameremmo di spill over; processi distanti, misteriosi, gestiti da tecnici e che si sottraevano – e tutt’oggi si sottraggono – al giudizio di cittadini e governanti.

Contrariamente a quanto generalmente si ritiene, il fine ultimo di Jean Monnet, l’alto funzionario del ministero degli esteri che ideò ed estese il piano Schumann, era la nascita degli Stati Uniti d’Europa – ed in questo non differiva dai più convinti federalisti di allora. Ciò che divideva Monnet da Altiero Spinelli non era dunque l’obiettivo da perseguire quanto il modo ed i tempi dell’unificazione; ancor più, a dividerli era il diverso modo di concepire le basi della legittimità della costruzione europea: che questa potesse esser calata dall’alto, giustificata ex-post dai risultati ottenuti, era nella logica stessa del funzionalismo. Dietro l’approccio monnettiano – che sin da allora ha diretto il processo di integrazione – era la sfiducia nelle opinioni pubbliche nazionali e nei governi dei Paesi membri; era lo scetticismo del burocrate del Quai d’Orsay – del tutto fondato – sulla possibilità di un’adesione spontanea dei cittadini d’Europa all’unione politica a spingerlo a cercare un processo che si sarebbe alimentato da sé, un processo che avrebbe reso inevitabile l’unificazione del continente lungo una linea che, di fatto, si sottraeva alla politica.

Che il metodo abbia dato i sui frutti è chiarissimo e basta guardare alla storia degli ultimi cinquant’anni per rendersene conto; e tuttavia che il “deficit democratico” sia anch’esso figlio del funzionalismo è altrettanto innegabile. In un certo senso ne era un esito previsto, inevitabile dato che l’intento era quello di “costringere” le democrazie europee ad unificarsi. D’altra parte per i funzionalisti il meccanismo che produceva il deficit portava anche al suo stesso superamento dal momento che, innestando una crisi permanente dell’Europa, avrebbe condotto all’unione politica quando, giunti davanti alla scelta ultima tra federazione e fine dell’Europa, il livello di unificazione economica avrebbe reso impossibile, irragionevole qualsiasi altra scelta. L’unica incognita erano i tempi, ma sull’esito non si potevano avere dubbi. Il trionfo della ragione sulla volontà e della tecnica sulla politica era inevitabile e, con esso, la nascita degli Stati Uniti d’Europa.

Guardando alla crisi attuale dell’Europa è facile comprendere come essa sia figlia del funzionalismo monnettiano e come ormai si sia giunti all’inevitabile alternativa “federarsi o perire”; una scelta radicale, un aut-aut; o una moneta unica solida, credibile o la fine dell’integrazione. Anche l’ipotesi della creazione di due diverse monete – pure emersa nelle scorse settimane – sarebbe infatti un semplice palliativo dal momento che priverebbe entrambe di ogni credibilità; con esse passerebbe il messaggio che in Europa le unioni durano solo fin quando i partner sono forti e stabili.

Nonostante i segnali contrastanti, pare che al bivio di fronte al quale l’Europa si trova oggi si stia imboccando la strada dell’approfondimento dell’integrazione – certo come “scelta forzata”. Ciò è in buona parte conseguenza della crescente consapevolezza del livello di unificazione economica raggiunto e della necessità di ripensare radicalmente, sulla base di ciò, il concetto stesso della sovranità dello stato-nazione; il peso e l’interesse della coppia Merkel-Sarkozy – vero ed unico motore dell’integrazione – nelle faccende nostrane lo dimostra ampiamente. L’indipendenza reale non solo dell’Italia ma di tutti i Paesi europei è oramai ridotta ad una formula vuota e quelle che a molti paiono indebite ingerenze negli affari interni di un altro stato sono invece la conseguenza dell’integrazione economica e finanziaria raggiunta dai Paesi europei. Qui, di fronte alla macroscopica discrasia tra dato reale dell’unità economica e dato formale della sovranità politica degli stati-nazione, riemergere con forza la questione del deficit di democrazia. Lo stesso avviene se si guarda alla BCE. La creazione degli Eurobond tramuterà di fatto l’istituto in prestatore di ultima istanza ed allora la sua natura fondamentalmente ed essenzialmente politica diverrà innegabile. La sua indipendenza dai Paesi membri – seppur nei limiti stabiliti dai trattati – riproporrà la questione della sua legittimità. Ora, secondo lo schema di Monnet, ancora una volta l’integrazione economica forzerà quella politica superando le reticenze dei cittadini d’Europa, andando contro il loro stesso volere – seppur, si dirà, nel loro interesse.

Il problema, dunque, si risolverà da sé quando politici, burocrati ed opinioni nazionali comprenderanno che non si può tornare indietro; che non è nell’interesse di nessuno tornare indietro. Sarebbe questo il trionfo della logica monnetiana. Ma, è ovvio, la cosa è ben più complessa. Il funzionalismo si basa infatti su un assunto sul quale è quantomeno legittimo avere dubbi, vale a dire che l’integrazione tecnica dell’economia porta inevitabilmente all’integrazione politica, che i due piani sono contigui e che il passaggio dall’uno all’altro avviene senza problemi. In realtà il salto – poiché di salto si tratta – dalla tecnica dell’economia all’arte della politica è molto lungo, più di quanto il funzionalismo possa ammettere. Il no francese al “Trattato Costituzionale” della Convenzione e quello danese al Trattato di Lisbona dovrebbero quantomeno far riflettere; già allora a Bruxelles si insisteva che bastava un minimo di buon senso per capire che l’unificazione politica conveniva a tutti. Agli occhi degli euroburocrati era un dato evidente, chiarissimo. Ed è proprio qui il punto debole. È davvero sufficiente provare, dati alla mano, che è interesse dei tedeschi accollarsi parte del debito italiano – ammesso che ciò sia vero – o spiegare agli italiani che è loro interesse accettare le politiche decise a Berlino – cosa forse ancora più difficile da dimostrare – perché tutti si avvedano e si dia vita ad una federazione? La risposta è ovvia. La politica, infatti, non è solo calcolo razionale ma attiene anche alle emozioni, ai pregiudizi, ai valori. Non solo all’utilità ma anche alla giustizia. In questo senso non può esservi nessun passaggio automatico ed involontario dalla tecnica, dall’amministrazione e dall’economia alla politica ed il funzionalismo si arresta proprio di fronte a quelle emozioni e a quei valori che alimentano l’arte complessa del governo della cosa pubblica. Se ipotizziamo per un attimo che la crisi dell’Europa è anche la crisi del funzionalismo e di quei suoi tecnicismi barocchi volti a dirigere – ma anche a “forzare” – le tappe dell’unificazione, allora diventa chiaro che solo riportando al centro di tutto i cittadini d’Europa, con i loro pregiudizi ed i loro ideali e contro la fredda logica che ha retto l’integrazione sino ad oggi, si può tentare il salto lungo – ma non impossibile – dalla “tecnica” alla “Politica”. Per far ciò, è necessario che a Bruxelles si comprenda finalmente che il futuro dell’Europa si costruisce solo assieme alle sue tante democrazie e che queste sono e rimarranno, ancora a lungo, democrazie “nazionali”.

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