di Carlo Marsonet *
Antonio Masala e Lorenzo Viviani, rispettivamente ricercatore in filosofia politica presso l’Università di Pisa e associato in sociologia politica presso il medesimo Ateneo, hanno da poco curato un volume dedicato ad una poliedrica analisi del fenomeno populista: L’età dei populismi. Un’analisi politica e sociale (Carocci 2020, pp. 304, 29 €). Il libro è articolato in quattro sezioni: la prima indaga il fenomeno da un punto di vista teorico,
di Carlo Marsonet *

Antonio Masala e Lorenzo Viviani, rispettivamente ricercatore in filosofia politica presso l’Università di Pisa e associato in sociologia politica presso il medesimo Ateneo, hanno da poco curato un volume dedicato ad una poliedrica analisi del fenomeno populista: L’età dei populismi. Un’analisi politica e sociale (Carocci 2020, pp. 304, 29 €). Il libro è articolato in quattro sezioni: la prima indaga il fenomeno da un punto di vista teorico, con particolare riferimento al rapporto tra populismo e democrazia, soffermandosi inoltre sulla sua problematicità definitoria (ideologia, mentalità, stile); la seconda parte, poi, si focalizza sulla ricostruzione storica dei populismi; la terza, in seguito, esamina il rapporto tra populismo, comunicazione e scienza, mentre la quarta ed ultima parte, anziché studiare – come la maggior parte delle pubblicazioni dedicate al populismo – quei fenomeni politici che vengono etichettati come “nuove destre radicali”, mira ad analizzare il rapporto tra populismo e sinistra.

Tuttavia, particolare attenzione destano un paio di saggi in esso contenuti: “I populismi e la democrazia. È possibile un populismo democratico?” scritto da Antonio Masala e “La (auto)distruzione del politico, 1968-2008” ad opera di Giovanni Orsina. Il primo di taglio teorico, ma con riferimento a casi storici, il secondo, invece, di taglio storico-politico ma con un’analisi teorica assai acuta: ad ogni modo, essi risultano profondamente legati e si vedrà in che modo.

Il lavoro di Masala non è interessante solo perché a esserlo è lo studio del pervasivo fenomeno del populismo, bensì in quanto, com’egli ammette, «una riflessione sul populismo si presta a diventare una riflessione su cosa sia la democrazia e su quali siano, o dovrebbero essere, i limiti della politica, intesa come insieme di scelte collettive, e dunque di cosa sarebbe opportuno o lecito aspettarsi da essa»: gli echi leoniani dei suoi precedenti studi si fanno sentire. Ciò che è assai rilevante nel suo saggio consiste nel fatto di sceverare tra due diversi – anzi, per certi aspetti, soprattutto in termini di fini da perseguire, opposti – tipi di populismo: il “populismo ideologico” e il “populismo democratico”. Essi condividono, scrive il ricercatore, almeno tre caratteristiche: l’appello diretto al popolo, l’identificazione di un nemico e l’obiettivo di restituire al popolo il controllo della politica. Nondimeno, siderali sono le differenze: il primo mira a purificare la teoria democratica dai suoi caratteri liberali, il secondo si prefigge di rivitalizzare la democrazia senza abbattere il lato liberale della medesima. Detto altrimenti, se si preferisce, il primo anela a riforme “purificatrici” della democrazia, il secondo a riforme nella democrazia.

Il “populismo ideologico”, scrive l’allievo di Raimondo Cubeddu, può essere considerato alla stregua dell’«ideologia (in senso deteriore) della democrazia». Cosa significa? Come si ricorderà, Robert. A. Dahl in “A Preface To Democratic Theory” – richiamato peraltro nel saggio dell’altro curatore del volume, Lorenzo Viviani – accanto alla democrazia di stampo madisoniano e alla poliarchia poneva la democrazia populista mirante alla massimizzazione dell’eguaglianza politica e della sovranità popolare come diritto della maggioranza. L’idea di Masala non si discosta di molto da ciò: «potremmo allora dire – scrive lo studioso – che quando il populismo ipostatizza il popolo e si propone la realizzazione “dell’anima popolare” esso diviene l’ideologia (in senso deteriore) della democrazia». In buona sostanza, la democrazia viene ripulita del suo lato liberale. Verrebbe da dire, forse banalizzando un po’: via Constant e dentro Rousseau. Infatti, il popolo è considerato alla guisa di un corpo puro, maggioritario che non deve accettare mediazioni o discussioni: la minoranza, le minoranze non sono considerate popolo, ma l’ “anti-popolo”, un errore da redimere (su questo si veda, per un caso concreto, ciò che scriveva Eva Peron in “Il mio messaggio”, trad. it., Fazi Editore, 1986). Come scrive Masala, in ciò il tipo di politica auspicata dal “populismo ideologico” è di tipo fideistico, à la Michael Oakeshott (“La politica moderna tra scetticismo e fede”, tr. it., Rubbettino 2013). Mentre la “politica dello scetticismo” è improntata a un uso parsimonioso e limitato del potere giacché impossibile è addivenire alla verità così come destinati al fallimento saranno gli obiettivi di raggiungere la perfezione in un mondo imperfetto, costituito da essere ignoranti e fallibili, la “politica della fede” ritiene di poter controllare ogni attività in quanto ispirata da ciò che è davvero il “bene comune”: perfezione e salvezza non sono solo auspicabili, ma concretamente perseguibili. Il “populismo ideologico”, ammantato di costruttivismo, non solo ascolta la voce del popolo, ma pensa che la politica, in virtù del suo potere salvifico, possa realizzare qualsiasi progetto da esso desiderato.

Al contrario, il “populismo democratico”, pur date le analogie con quello ideologico sopra riportate, si palesa più che altro come uno stile che ha come scopo «di riavvicinare le istituzioni al popolo senza negare il valore delle istituzioni medesime». Il caso più emblematico rinvenuto da Masala è quello del thatcherismo (ma vengono anche citati i casi di Franklin Delano Roosevelt e Charles de Gaulle). In Margaret Thatcher, infatti, vi era un costante appello al popolo, così come diversi nemici vennero identificati come intralci alle sue riforme (l’establishment politico, burocratico e sindacale, su tutti) e, infine, presente era la forte volontà di restituire al popolo il controllo della politica tramite il progetto del “popular capitalism”. Dunque, non si trattava di sconvolgere la democrazia, ma solamente, si fa per dire, di denunciare un deterioramento di alcune istituzioni per provarle a riformarle ed innovarle.

Insomma, se il primo tipo di populismo risulta essere un pericolo assai grave, a patto che non si abbia come autore di riferimento Jean-Jacques Rousseau oppure gli autori che anelavano all’ “immaginazione al potere”, il secondo, più umile e modesto nei suoi propositi, può diventare un valido strumento di riforma (in certe circostanze e a certe condizioni). Ma ciò su cui si deve riflettere è la considerazione conclusiva di Masala, che va riportata per intero: «Una delle ragioni della crisi della democrazia è quella di aver sovraccaricato di compiti la politica, aver lasciato pensare che tutte le aspettative individuali potessero diventare diritti che la politica può, o deve, soddisfare […]. Una democrazia che ha promesso troppo e una politica che ha assunto compiti non suoi, fallendo inevitabilmente, sono diventate la linfa del populismo, e della sua promessa che tutta possa dipendere dalla scelta e dalla volontà del popolo. Senza una riflessione sui limiti della politica, e del suo giusto ruolo anche in relazione a quelle che deve essere la responsabilità e la libertà dei singoli individui e delle comunità, sembra difficile pensare che il populismo (ideologico) non sia destinato a giocare un ruolo di rilievo nel futuro».

Tale considerazione si lega profondamente a quello che scrive Giovanni Orsina nel suo saggio (il quale peraltro ricalca quello che aveva elaborato più compiutamente in “La democrazia del narcisismo”, Marsilio 2018). «Ammaestrati da Tocqueville – scrive lo storico contemporaneista – sappiamo da molto tempo ormai che quello democratico è un progetto contradditorio, e che per funzionare ha bisogno di appoggiarsi a circostanze che gli sono estranee». Detto in altri termini, e per riprendere il noto “paradosso di Böckenförde, «lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire». Se, da un lato, la democrazia fa in qualche modo la promessa di piena e più compiuta realizzazione individuale, è abbastanza evidente che tale promessa, per contro, è destinata a fallire miseramente. La politica liberal-democratica non ha in sé quei poteri che le possono consentire un tale progetto. Il retaggio del Sessantotto, il quale anelava a una assoluta realizzazione del proprio progetto esistenziale, è ancora presente, forse oggi più che mai dopo cinquant’anni. Il rischio è che il “populismo ideologico” di cui parla Masala continui a trovare un bacino pressoché inesauribile per autoalimentarsi: la domanda di più politica, ovvero di più diritti, regolamentazioni e intrusioni nella sfera di decisione individuale è alta. Il prezzo da pagare è abbastanza evidente: la libertà. L’opportunità, tuttavia, è altrettanto grande, e consiste in quel recupero di maturità e di responsabilità che può far ritornare gli individui a essere davvero liberi e agenti in comunità autentiche, così come le democrazie a essere meno assorbenti in termini di decisioni collettive, evitando così quel circolo vizioso di nuovi fallimenti che alimentano ulteriori, rinnovate richieste di maggiore politica.

*PhD candidate in “Politics: History, Theory, Science”, Luiss Guido Carli, Roma

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