di Alessandro Campi
Non è una gran scoperta che il prossimo 26 gennaio si voterà, oltre che in Emilia Romagna, anche in Calabria. Ma è una notizia che la cosa non interessi nessuno. Dall’esito del primo voto, di cui tutti parlano, si dice che potrebbero dipendere le sorti del governo e della politica nazionale. Dall’esito del secondo, su cui si sa e si dice pochissimo, non si capisce bene cosa potrebbe derivare: giusto un nuovo Presidente di regione chiamato a governare un territorio senza risorse e,
di Alessandro Campi

Non è una gran scoperta che il prossimo 26 gennaio si voterà, oltre che in Emilia Romagna, anche in Calabria. Ma è una notizia che la cosa non interessi nessuno. Dall’esito del primo voto, di cui tutti parlano, si dice che potrebbero dipendere le sorti del governo e della politica nazionale. Dall’esito del secondo, su cui si sa e si dice pochissimo, non si capisce bene cosa potrebbe derivare: giusto un nuovo Presidente di regione chiamato a governare un territorio senza risorse e, nella considerazione dei più, senza futuro.

Quest’asimmetria risalta facilmente dalla diversa attenzione che i media – tradizionali e nuovi – stanno dedicando ai due appuntamenti. Della candidata donna Lucia Borgonzoni sappiamo politicamente tutto (comprese le divertenti diatribe col genitore anti-leghista) e tante volte l’abbiamo vista – in foto e filmati – al fianco di Salvini durante i comizi e gli incontri elettorali. Della candidata donna Jole Santelli sappiamo solo che è donna e di certo sono pochissimi gli italiani che ne conoscono il volto (lasciamo ovviamente perdere gli addetti ai lavori che della Santelli, già pupilla berlusconiana, conoscono la storia, ma parliamo di una minoranza esigua e irrilevante). Il candidato Stefano Bonaccini, colla sua barba ben curata, è tutti i giorni sulla stampa a spiegare perché grazie a lui la sinistra vincerà. Il candidato Filippo Callipo se è tutti i giorni nei pensieri degli italiani è solo perché produce un ottimo tonno, certo non per quel che pensa politicamente. Ma non è colpa sua: semplicemente fuori dalla Calabria nessuno glielo chiede. Anche lui, quanti lo riconoscerebbero vedendolo per strada o in foto?

Ma anche i leader politici stanno diversamente dividendo le loro forze nelle due regioni. Tra il Po e l’Adriatico è un via vai continuo di pezzi grossi di tutti i partiti. Tra i due mari calabresi le apparizioni dei segretari di partito e di ministri vecchi e nuovi sono state poche e fugaci, quelle minime indispensabili, con l’eccezione del solo e solito Salvini, di cui si comincia a sospettare che esistano dei sosia che lo sostituiscono nei tour elettorali e nel rito snervante dei selfie dopo i comizi. In entrambi i territori latitano Renzi e i renziani, ma questa è un’altra storia.

Una differenza di attenzione politica che si era già manifestata al momento di scegliere i candidati: quelli a governatore e quelli da inserire nelle liste. Per l’Emilia Romagna i capi nazionali si sono spesi come hanno potuto. Nel caso della Calabria hanno lasciato che a sbrigarsela fossero, per così dire, quelli del posto: meglio non mettere le mani in quel ginepraio. Dove il problema non è solo la ‘ndrangheta, che per definizione tende a infiltrarsi coi suoi uomini nel livello politico-amministrativo per meglio controllarlo e indirizzarlo (ma già solo questo pericolo meriterebbe un filtro nazionale oculato e rigoroso di ogni singolo aspirante ad ogni votazione), ma il coesistere o sovrapporsi di quest’ultima con logiche personalistiche e da clan, con gruppi affaristici e consorterie d’ogni tipo, con avventurieri e filibustieri senza bandiera. I partiti, se a livello nazionale sono liquidi, in Calabria sono allo stato gassoso; nella migliore delle ipotesi contenitori adatti ad ogni contenuto. Basta pensare, per fare un solo esempio di tale disattenzione del centro verso la periferia, al modo straordinariamente e colpevolmente svagato con cui il M5S ha gestito la scelta del proprio candidato in un territorio che alle politiche del 2018 aveva dato al movimento il 43% dei voti e ben 17 parlamentari. Se quel voto era stato per i calabresi disperati un investimento politico nel segno della speranza e del riscatto, non si può dire che sia stato ben ripagato da chi ne ha beneficiato.

Ci sono ovviamente delle ragioni obiettive che possono spiegare, senza però giustificarlo del tutto, questo differente livello di attenzione. In Emilia Romagna, sondaggi alla mano, il risultato finale è in bilico e tutt’altro che scontato. In Calabria viene invece data per sicura la supremazia del centrodestra. Ed è chiaro che appassiona più una partita dall’esito incerto che una di cui già si conosca il vincitore.

La rilevanza economico-sociale delle due regioni è poi oggettivamente molto diversa. La Calabria è un territorio depresso e povero, laddove l’area emiliano-romagnola rappresenta uno dei motori produttivi del Paese. Non è indifferente se quest’ultima, vincendo la Lega, dovesse finire per amalgamarsi politicamente con Piemonte, Lombardia e Veneto: a quel punto Salvini e i suoi alleati avrebbero il controllo politico-amministrativo dell’Italia che produce e crea ricchezza, con ciò che ne consegue. Ma un territorio afflitto da una disoccupazione endemica e che vede fuggire i suoi giovani sino a produrre un crescente spopolamento non dovrebbe stimolare l’attenzione degli osservatori al pari di uno ricco e popoloso? Problemi diversi, soluzioni diverse, ma interesse comune, visto che stiamo pur sempre parlando dell’Italia e delle distanze che la sua classe politica, in un secolo e mezza di unità politica, non è riuscita a colmare o ridurre.

C’è poi certamente una posta politico-simbolica che rende i due appuntamenti elettorali difficilmente paragonabili. Alla guida della regione Calabria negli ultimi decenni si sono alternate, in modo quasi fisiologico, giunte di diverso colore politico (e tutte peraltro hanno lasciato pessimi ricordi). In Emilia Romagna rischia di finire, se dovesse vincere il centrodestra a trazione leghista, lo storico modello socialista che da sempre la caratterizza: un’egemonia politica, culturale e sociale della sinistra che ha fatto di quest’angolo d’Italia qualcosa di eccentricamente unico. Essendo già caduta l’Umbria, si capisce come il cambio di colore politico anche di questo territorio rappresenterebbe la fine di quell’Italia di mezzo che dal secondo dopoguerra è sempre stata tinta di rosso.

Come si vede, tutti motivi più che validi per interessarsi più del voto emiliano-romagnolo che di quello calabrese. Ma alle ragioni manifeste ed evidenti forse bisognerebbe aggiungere quelle inespresse o inconfessabili. Prima fra tutte, l’idea che la Calabria sia da considerare, per dirla brutalmente, una regione persa, una realtà territoriale irredimibile, da lasciare a sé stessa e ai suoi atavismi antropologici e sociali, che gli altri italiani semplicemente non comprendono. Un’area vissuta sempre più come estranea al resto della comunità nazionale: per alcuni economicamente una palla al piede, per altri una vergogna collettiva da non esibire, per qualcuno infine una regione che non si capisce come e grazie a cosa possa cambiare il suo destino. Una regione che nell’immaginario collettivo odierno si riassume, nella dimensione tragica, nel nome di Nicola Gratteri, il magistrato senza macchia che senza paura combatte la ‘ndrangheta (per fortuna sostenuto in quest’impegno da una parte non piccola della popolazione calabrese, come s’è visto nelle recenti manifestazioni a suo sostegno); e per la parte comico-grottesca, nel nome di Cetto La Qualunque, il politico ignorante e cafone che conquista gli elettori promettendo abusi edilizi e “cchiù pilu pe’ tutti!”.

Suonerà amaro e sgradevole, ma nel caso della Calabria stiamo parlando di un sostanziale processo di secessione territoriale – psicologica prima che politica – che dura in effetti da anni e che non fa che accentuarsi, nel disinteresse o nell’impotenza generale. Parliamo di una forma di progressivo distacco che non si sa bene a chi imputare: se agli stessi calabresi, che un po’ tendono a crogiolarsi nella loro alterità, intrisi come sono di fatalismo e di un malinteso senso dell’orgoglio, o se al resto del Penisola, troppo presa dai suoi infiniti particolarismi e localismi per interessarsi anche alla deriva della sua propaggine più meridionale.

In realtà, questa campagna elettorale poteva essere una buona occasione per portare all’attenzione nazionale la peculiare situazione della Calabria: per mostrarne senza reticenze i drammatici problemi (a partire dal peso che su di essa esercita la criminalità organizzata), ma anche per valorizzarne le eccellenze professionali e imprenditoriali (queste ultime poche ma comunque significative) e per illustrane le potenzialità non sempre sfruttate a dovere.  E invece il voto è stato confinato in una dimensione tutta localistica, come tale di nessun rilievo per l’opinione pubblica nazionale: un disinteresse politico-mediatico che rappresenta un madornale errore, dal momento che così facendo si accentuano l’isolamento fisico e il sentimento di abbandono di cui la Calabria e i calabresi storicamente soffrono.

  • Editoriale apparso sul quotidiano “Il Mattino” del 22 gennaio 2020

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