di Luca Marfé
NEW YORK – Può sembrare incredibile per svariate ragioni, ma i repubblicani quest’anno potrebbero farcela per davvero. La prima su tutte le altre? I democratici.
Le elezioni di midterm rappresentano una chiave di alternanza quasi scientifica tra gli schieramenti della politica statunitense. Storicamente, ad un presidente di destra corrisponde una vittoria della sinistra. E viceversa.
Il voto è fissato a due anni dalla nomina dell’inquilino della Casa Bianca. A metà del suo mandato,
di Luca Marfé

NEW YORK – Può sembrare incredibile per svariate ragioni, ma i repubblicani quest’anno potrebbero farcela per davvero. La prima su tutte le altre? I democratici.

Le elezioni di midterm rappresentano una chiave di alternanza quasi scientifica tra gli schieramenti della politica statunitense. Storicamente, ad un presidente di destra corrisponde una vittoria della sinistra. E viceversa.

Il voto è fissato a due anni dalla nomina dell’inquilino della Casa Bianca. A metà del suo mandato, appunto. E non ha nulla a che vedere con il primo uomo d’America, ma verte in prevalenza sul rinnovo dei due rami del Congresso, oltre che sulla selezione di un certo numero di governatori.

La premessa è d’obbligo, ma mai come stavolta potrebbe essere oggetto di una smentita clamorosa. In quanto a colpi di scena, e ad ingombro della stessa, si sa, Donald Trump ha già scritto tante e tante pagine di giornali e addirittura di storia.

Affermare che il voto del prossimo 6 novembre sia scollegato dalla figura del tycoon significa non aver capito nulla degli umori e, più in generale, dello scenario degli Stati Uniti di oggi.

Al contrario, per quanto The Donald incarni poco e male la linea e soprattutto la tradizione del Partito Repubblicano, la tornata elettorale oramai alle porte rischia di assumere i connotati di un vero e proprio referendum sulla sua persona. Un “referendum” che, a dispetto di ogni previsione, può vincere.

I sondaggi sono altalenanti e, sin dal giorno del suo insediamento, Trump non ha di certo brillato per popolarità. Tuttavia, la sua base è solida, l’economia va a gonfie vele e di fatto alcuni risultati è riuscito a portarli a casa. Appiccicandosi addosso, un po’ a ragione, un po’ forzando toni e narrativa, l’etichetta di colui che mantiene le promesse.

Non c’è Russiagate che tenga, insomma. Almeno non per il momento. Non fino a quando, se mai sarà, verranno fuori elementi tangibili da un’indagine che non ha mai smesso di morderlo, ma che al tempo stesso mai è stata in grado di produrre degli elementi concreti.

Il vero nodo dell’intera questione, però, sta dall’altra parte. L’onda blu dei democratici prova a sollevarsi, ma stenta. In primis, perché tuttora prigioniera di una leadership sconfitta, ma testarda: quella di una Hillary Clinton che, in buona sostanza, non ha mollato né le redini del partito né i suoi sogni di rivalsa. Ed è proprio di una nuova guida che è orfana la sinistra americana. Di un volto fresco, pulito, in grado di compiere una sorta di miracolo che cada giusto a metà tra politica e comunicazione: sottrarre iniziativa, riflettori ed elettori a Donald il terribile.

Non un semplice contendente, ma un’autentica ossessione.

E così, non si fa altro che parlare di lui. Male, malissimo. Ma limitarsi a denigrare l’avversario, ancor più se in maniera feroce, quasi scomposta, svela un certo vuoto: di soggetti, di idee e peggio ancora di progetti.

Non basta aggredire, specie se il rivale sa come difendersi. Sarebbe necessario costruire e sarebbe necessario farlo sulle macerie di una batosta che viceversa non è mai stata metabolizzata.

E invece si continua per l’appunto a parlare. A parlare di lui.

E noi italiani, dopo venticinque anni di lezioni patite, dovremmo poter capire meglio di chiunque altro in che razza di guaio si stia andando a cacciare il Partito Democratico a stelle e strisce.

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