di Alessandro Campi
E’ il momento magico di Matteo Salvini. La sua nuova Lega – territorialmente nazionale,  ideologicamente sovranista, cromaticamente convertitasi al blu-azzurro che fu di Berlusconi e ora è di Trump – partecipa al governo dettandone la linea e le parole d’ordine. Ieri, sul prato di Pontida, oltre cinquantamila militanti hanno preso parte al raduno annuale del movimento: una festa popolare, di persone in carne ed ossa, in tempi di evanescenti comunità virtuali.
di Alessandro Campi

E’ il momento magico di Matteo Salvini. La sua nuova Lega – territorialmente nazionale,  ideologicamente sovranista, cromaticamente convertitasi al blu-azzurro che fu di Berlusconi e ora è di Trump – partecipa al governo dettandone la linea e le parole d’ordine. Ieri, sul prato di Pontida, oltre cinquantamila militanti hanno preso parte al raduno annuale del movimento: una festa popolare, di persone in carne ed ossa, in tempi di evanescenti comunità virtuali. I sondaggi danno il partito stabilmente oltre il 30%, con un salto strabiliante rispetto ai voti ottenuti lo scorso 4 marzo (il 17%): non solo si è mangiato l’intero centrodestra, ma sta erodendo anche l’elettorato grillino. All’estero se ne parla sempre più: come un modello da imitare (tanto che lui stesso sta pensando a creare una Lega delle leghe su scala internazionale) o, con crescente allarme, come una minaccia da neutralizzare.

Come si spiega tutto ciò? Se Matteo Salvini vince e convince è perché sta cavalcando irresponsabilmente, con una propaganda abile e spregiudicata, le paure e le cattive pulsioni degli italiani. Sta insomma giocando col fuoco dell’intolleranza e del pregiudizio. E’ la motivazione facile offerta dal “vero democratico”, politico o commentatore, secondo il quale la politica deve neutralizzare e combattere la paura, non alimentarla. Il problema è però quando la si nega, al prezzo di nascondere la realtà o l’esperienza quotidiana, o la si imputa, con snobismo pedagogico, ad un deficit di cultura e di coscienza civile dei cittadini. Esattamente l’errore politico commesso dalla sinistra in questi anni rispetto ai segnali di disagio provenienti soprattutto dalle classi popolari.

La cui condizione di insicurezza si tende peraltro ad attribuire ad un’irrazionale e retriva chiusura mentale verso tutto ciò che è diverso e straniero: da qui le denunce di una deriva xenofoba della quale Salvini si sarebbe fatto interprete. Ma anche questo è un errore. Dietro il fantasma agitato di un razzismo che starebbe risorgendo dagli inferi della storia, e dunque dietro l’enfasi che rischia in effetti di essere propagandistica e strumentale sull’immigrazione, spesso ci sono fenomeni e sentimenti di tutt’altra natura. Ad esempio, la drammatica perdita di status sociale e di aspettative per il futuro dovuto alla crisi economica; il logoramento delle vecchie reti di protezione sociale (quelle pubbliche di un welfare in disarmo e quelle che erano garantite dalla comunità di appartenenza); modelli culturali globali che tendono a considerare obsoleta qualunque forma di tradizione storica; la crescita del senso di solitudine, fortissimo nelle nuove generazioni immerse nei nuovi universi tecnologici. Il fatto di aver intercettato e preso sul serio simili stati d’animo collettivi in realtà già basta a spiegare l’ascesa di Salvini.

Che vince e convince anche per altre ragioni. Ad esempio, per il fatto di guidare un partito vero e persino un po’ all’antica: organizzativamente solido, gerarchico, radicato nel territorio, compatto intorno al suo leader al centro come in periferia. Non era così il Pd di Matteo Renzi, soggetto a mille spinte centrifughe e costretto a continue mediazioni coi potentati locali che hanno finito per minarne la leadership. E nulla a che vedere nemmeno col personalismo proprietario di Berlusconi: un modello divenuto  obsoleto proprio perché troppo condizionato dagli umori, dalle forze e dalle convenienze di un uomo solo. Senza contare quello che invece suona come un paradosso: il fatto cioè che Salvini, nell’epoca che dovrebbe essere dell’antipolitica dilagante, risulti (con)vincente pur esprimendo un professionismo di vecchio conio, visto che nella sua vita è stato solo e soltanto un attivista e dirigente politico. Forse qualcosa sta cambiando nell’opinione pubblica, dopo due decenni di ubriacatura sulle virtù del dilettantismo applicato alla sfera politica.

Ma c’è dell’alto. Mentre i suoi avversari si affannano a denunciarne il populismo (che in realtà è il registro o stile di comunicazione adottato ormai da tutti i leader democratici) o lo scivolamento verso posizioni d’estrema destra (con l’evocazione di scenari e pericoli storici del tutto anacronistici o accostandolo a esperienze europee che hanno agganci sentimentali o simbolici col fascismo che alla Lega invece mancano) non si tiene conto che l’ideologia sovranista alla quale Salvini ha convertito il suo partito è meno banale, sul piano storico generale, di quanto appaia. Di sicuro non può essere liquidata come una retriva pulsione ad alzare muri e linee divisioni laddove la tendenza storica sarebbe invece ad abolire ogni tipo di confine o di identità collettiva particolaristica.

Da un lato, infatti, essa esprime la rilegittimazione dello spazio politico-culturale della nazione e dello Stato a fronte della crisi dell’ideologia globalista che ha alimentato per vent’anni l’immagine di un mondo in via di crescente uniformizzazione (e pacificazione)  dal punto di vista dei valori culturali, dei modelli sociali e delle forme politiche. Dall’altro, riflette la rivoluzione degli equilibri geopolitici mondiali attualmente in corso, testimoniata tra le altre cose dalla fine della storica solidarietà euro-atlantica, dall’emergere di nuovi attori sovrani sulla scena globale e dalla crisi del processo di integrazione europeo nella chiave  tecnico-finanziaria con cui è stato immaginato a suo tempo.

Ciò detto, resta l’incognita su ciò che questa nuova Lega può diventare. I suoi slogan e le sue ricette prima o poi dovranno cercare di tradursi in concrete scelte di governo. I suoi consensi virtuali, oggi altissimi, debbono tenere conto della straordinaria mobilità (e infedeltà) degli elettorati. Lo stile di comunicazione dello stesso Salvini non può mantenersi febbricitante e martellante come è stato sino ad oggi. C’è da prevedere o immaginare una qualche evoluzione. Dopo anni spesi a discutere la nascita di un partito liberale di massa in sé contraddittorio, vista l’esperienza storicamente minoritaria del liberalismo italiano, questa Lega sembra aver messo le basi, ancora tuttavia da sviluppare organicamente, di un solido partito conservatore di massa che nella storia italiana è sempre esistito come base di consenso elettorale e tendenza culturale ma che in una forma organizzativa esplicita non si è mai palesato. Sarà questo il destino della Lega Italia?

 

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