di Alessandro Campi
In Italia dei problemi dei giovani parlano quelli che giovani non sono, vale a dire coloro che sono il problema più grande che i giovani hanno in Italia. Sublime ipocrisia o suprema astuzia? Parliamo di un esercito di pensionandi e pensionati ben attaccati alle loro poltrone e ai loro privilegi, beneficiari di un sistema di assistenza pubblica destinato a finire con loro e che per i giovani d’oggi, quando diventeranno anziani a loro volta,
di Alessandro Campi

In Italia dei problemi dei giovani parlano quelli che giovani non sono, vale a dire coloro che sono il problema più grande che i giovani hanno in Italia. Sublime ipocrisia o suprema astuzia? Parliamo di un esercito di pensionandi e pensionati ben attaccati alle loro poltrone e ai loro privilegi, beneficiari di un sistema di assistenza pubblica destinato a finire con loro e che per i giovani d’oggi, quando diventeranno anziani a loro volta, sarà più un lontano ricordo che un rimpianto.

L’Italia è, per dirla gentilmente, un Paese declinante perché sempre più canuto e senescente: si nasce di meno e si campa più a lungo (abbiamo 3 giovani ogni 5 anziani). La società del benessere, nella quale abbiamo lungamente vissuto, ha fatto crescere l’aspettativa di vita. La società del malessere e dell’incertezza, nella quale ormai siamo entrati, ha accentuato la tendenza alla denatalità: se per un periodo non si sono fatti figli per via della carriera, oggi non si fanno figli perché manca il lavoro. La paura del domani si è sommata all’egoismo dell’oggi, forse ne ha preso il posto, ma il risultato non cambia. Dal 2008 le nascite in Italia non hanno fatto altro che diminuire. Si sperava nel controbilanciamento demografico prodotto dagli immigrati, ma il fatto che la popolazione italiana nel suo complesso sia in costante diminuzione (presto saremo sotto la soglia dei sessanta milioni di abitanti) significa che anche le nascite degli stranieri si sono nel frattempo contratte.

In questi casi gli studiosi parlano, senza troppo giri di parole, di collasso demografico, che non è solo un problema statistico, ma anche storico-politico: una popolazione che cala drasticamente di numero è anche una cultura che lentamente si inaridisce. Visto che siamo abituati a versare lacrime calde sulle tribù che scompaiono in questa o quella parte del mondo insieme alle loro lingue, converrà chiedersi se si sarà qualcuno pronto a dispiacersi quando, un giorno nemmeno troppo lontano, un analogo destino toccherà anche a noi. Secondo alcune proiezioni, tra cento anni potremmo essere appena 16 milioni, visto il ritmo con cui si sta riducendo la fascia di popolazione in età feconda. Tra duecento anni, gli italiani potrebbero non esistere più. Ci consola che di noi comunque si parlerà nei libri di storia, sempre che continui ad esistere nel futuro una disciplina chiamata Storia.

Si parla tanto, soprattutto in questi tempi difficili, delle priorità della politica italiana: se quest’ultima fosse una cosa seria, la questione demografica dovrebbe essere in effetti la sua principale ossessione. Dal momento che intorno ad essa ruotano, a ben vedere, molti dei nostri problemi contingenti e strutturali: la ricerca di politiche per dare lavoro ai giovani e per evitare che fuggano all’estero; la riforma di un sistema di welfare oggi sbilanciato a beneficio di alcune categorie protette e finanziariamente sempre meno sostenibile; la crescita costante e irrefrenabile della nostra spesa pubblica; il clima di risentimento e divisione che si respira nel Paese e che presto o tardi potrebbe dare luogo ad un violento scontro sociale su base generazionali; la difficoltà a gestire con un minimo di visione strategica i flussi migratori e le politiche di integrazione; l’accentuarsi degli squilibri socio-territoriali tra Nord e Sud; l’irrilevanza crescente della nostra politica estera nel bacino geopolitico del Mediterraneo; la difficoltà a pianificare investimenti innovativi di lungo periodo. Questioni diverse, ma che tutte hanno a che vedere col malessere demografico che attanaglia l’Italia ormai da anni.

Avere una popolazione vecchia e che invecchia significa tante cose. In primis sul piano esistenziale e mentale: ci si attacca di più al proprio “particulare”, non si fanno progetti per il domani, si tende ad avere una visione pessimista e cupa del mondo, si hanno meno energie (anche fisiche) da mettere in campo e di conseguenza si partoriscono meno intuizioni e idee. Ma le conseguenze sono negative soprattutto sul lato sociale ed economico: si produce di meno, si innova di meno, si è costretti a concentrare sempre più risorse sulla spesa previdenziale e medico-assistenziale, si alterano le tradizionali forme della convivenza sociale (dalla vita nelle città a quella nelle famiglie).

Sono tutte cose dette e ridette, dagli studiosi in particolare, che l’Italia condivide con molti altri Paesi occidentali anch’essi in vistoso declino dal punto di vista demografico, ma che faticano ad entrare nell’agenda politica dei partiti e del governo. Si dice in virtù di un antico pregiudizio ideologico, che lega la demografia come scienza all’ideologia di potenza del fascismo. Ma probabilmente è solo insipienza, mancanza di curiosità o incapacità a vedere i problemi prima che essi diventino esplosivi.

*Editoriale apparso sul “Il Mattino” (Napoli) del 4 settembre 2020

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