di Marco Gervasoni
Le vicende che hanno preceduto la formazione del governo Conte, l’affare dell’Aquarius e il successivo, inedito (per violenza), scontro diplomatico con la Francia, hanno reso evidente ciò che molti sapevano: le élite globaliste e gli intellettuali non amano, anzi detestano, l’Italia. Di fronte agli attacchi della stampa e di leader politici stranieri, televisioni pubbliche e private, tutti i giornali mainstream, che della élite in teoria sono la voce, e una larga schiera di quelli che negli Usa si chiamano intellettuali pubblici,
di Marco Gervasoni

Le vicende che hanno preceduto la formazione del governo Conte, l’affare dell’Aquarius e il successivo, inedito (per violenza), scontro diplomatico con la Francia, hanno reso evidente ciò che molti sapevano: le élite globaliste e gli intellettuali non amano, anzi detestano, l’Italia. Di fronte agli attacchi della stampa e di leader politici stranieri, televisioni pubbliche e private, tutti i giornali mainstream, che della élite in teoria sono la voce, e una larga schiera di quelli che negli Usa si chiamano intellettuali pubblici, si sono ampiamente schierati… contro l’Italia. Vecchia storia, si dirà: l’Italia del Rinascimento che chiama gli eserciti stranieri per sconfiggere lo stato vicino rivale, l’intellettuale italiano nato come cortigiano e quindi più legato al Principe (anche straniero) che al popolo, il debole senso di appartenenza nazionale. Sì, tutto vero. Ma non basta. Anche perché, se questi caratteri originari fossero stati davvero così determinanti non avremmo avuto, per dire, il Risorgimento, la vittoria nella Grande guerra, la stessa Resistenza, che furono guidati da élite e in cui gli intellettuali ebbero un ruolo di primo piano nella difesa della loro nazione. Deve essere successo qualche cosa dopo.

Un flash. Mondiali di calcio Usa, 1994. Governo Berlusconi. Sui giornali della sinistra, «l’Unità » e «il manifesto» si sviluppa un dibattito: si deve tifare Italia? L’Italia berlusconiana, con in più il berlusconismo Arrigo Sacchi come Ct? Già che si fosse posta la questione, stava ad indicare che qualcosa era saltato. Negli anni precedenti gli intellettuali della sinistra mai avevano inviato a tifare contro l’Italia per non rischiare di legittimare il «regime democristiano», come lo chiamavano loro. Senza dire che, attaccato da larga parte della stampa europea e da alcuni esponenti politici, il governo Berlusconi non ebbe la solidarietà dei media italiani: che anzi si fecero spesso megafono e portavoce di quelle critiche. Che cosa era successo? Almeno due fenomeni. Uno, il crollo dei partiti politici di massa. Contrariamente alla tradizionale interpretazione liberale, i partiti di massa non avevano confiscato il senso di appartenenza nazionale; per certi versi anzi lo avevano intensificato, sia pure in una forma incomprensibile per chi era cresciuto nell’Italia liberale e fascista. I partiti avevano contribuito a nazionalizzare il popolo, e con loro gli intellettuali. Soprattutto avevano funzionato da luogo di incontro tra intellettuali e quelli che non lo erano. Ma, indebolitisi prima e poi defunti i partiti, gli intellettuali divennero sempre più autoreferenziali. Seconda ragione: negli anni Ottanta arrivarono nella plancia di comando dei media, delle case editrici, di produzione cinematografica e giornalistica, nelle cattedre universitarie, coloro che si erano formati nel lungo Sessantotto italiano. Un movimento di minoranze molto eterogenee tra loro ma caratterizzato da un nichilismo assoluto, le cui prime vittime furono proprio lo Stato, la patria, la nazione. E anche se i sessantottini di prima e seconda leva avevano dismesso l’eskimo, era rimasta in loro quella totale estraneità, se non autentico disprezzo, nei confronti di qualsiasi forma di comunità che rimandasse alla nazione e alla patria.

Qui bisogna intendersi: Stato, nazione e patria sono tre concetti molto diversi tra loro, non sempre sovrapponibili. Nel passato non tutti si erano riconosciuti nella triade, in alcuni casi il senso di adesione allo Stato era prevalso a detrimento della nazione, altre volte era accaduto il contrario (per molti antifascisti in esilio, ad esempio, fu l’adesione alla patria italiana a farli schierare contro lo Stato e la nazione fascisti). Il Sessantotto invece rigettò la triade nella sua interezza: le élite cresciute in quel marasma e gli intellettuali in particolare si sentirono estranei e ostili a Stato, nazione e patria. Più che nemici da combattere, oggetti di derisione.

Autoreferenzialità degli intellettuali, conquista dell’egemonia culturale dei figli della contestazione lunga e poi, a partire dagli anni Ottanta, l’affermarsi di un europeismo ingenuo (e un po’ ebete), coniato e tramandato proprio dalle élite, secondo cui l’Europa ci avrebbe salvato dall’Italia, dai nostri vizi e dalle nostre storture. Dal 1994 il divario è andato allargandosi. Anche perché poi è intervenuto il fattore forse più importante: la mondializzazione figlia dalla globalizzazione. Per cui le élite, e gli intellettuali che (sia pure in posizione subalterna) ne fanno parte, cominciano a frequentare spazi, luoghi e persone che li conducono a stringere relazioni più con cittadini di altri paesi che con i loro. Cittadini di altri paesi che, a loro volta, sono anch’essi sempre più  sradicati dalla nazione: sono quelli che il saggista inglese David Goodhart, per spiegare la Brexit, chiama i «nowhere»: che conoscono più le metropoli degli altri Stati che non le campagne del proprio paese (per non parlare delle periferie o delle città di provincia). Ecco che quindi anche in Gran Bretagna, in Francia, negli Stati Uniti (dove questa élite meritocratica e mondializzata è definita dal sociologo Richard V. Reeves dream hoarders) le élite parlano solo a quelle degli altri paesi, i loro figli frequentano scuole internazionali, la lingua di appartenenza è diventata l’inglese, ma un inglese ridotto all’osso – la conoscenza linguistica dei Ceo della Silicon Valley dimostra una povertà lessicale stupefacente. La stessa idea di madre lingua, che permetteva un contato emotivo e pre-razionale con la propria comunità, tramonta, almeno per chi non fa parte della sfera anglo-americana. Ecco perché nelle ultime settimane dai giornali e dalle televisioni si sono alzate queste domande, che ancora negli anni Ottanta del secolo scorso sarebbe state inconcepibili; perché non possiamo aprire le frontiere a tuti i «disperati del mondo»? E poi le frontiere non sono «segni convenzionali» come è stato detto autorevolmente? E perché io italiano non devo sentirmi più vicino a Macron o a Sanchez che al «sovranista» Salvini? E perché non devo augurarmi che il mio paese non sia commissionato dall’esterno? Già, ma qual è il mio paese? Alla fine le masse si sono nazionalizzate, ma senza l’aiuto delle élite che, in teoria, avrebbero dovuto farlo; in compenso queste ultime hanno perso ogni contatto con la nazione.

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