di Luca Marfè
La guerra dei dazi con la Cina, l’ipotesi di rientro della Russia, le tensioni nucleari con l’Iran, l’Amazzonia di fuoco del Brasile, l’altalena tra diplomazia e conflitto con la Corea del Nord, il rapporto di fiducia (sfiducia) con gli alleati. Cala il sipario su Biarritz e resta un’unica grande verità: a Donald Trump del G7 non gliene frega assolutamente niente.
Vale tutto e il contrario di tutto, come dimostra una conferenza stampa di chiusura che assomiglia più a uno show televisivo che non a un momento di contatto istituzionale con il presidente degli Stati Uniti d’America.
di Luca Marfè

La guerra dei dazi con la Cina, l’ipotesi di rientro della Russia, le tensioni nucleari con l’Iran, l’Amazzonia di fuoco del Brasile, l’altalena tra diplomazia e conflitto con la Corea del Nord, il rapporto di fiducia (sfiducia) con gli alleati. Cala il sipario su Biarritz e resta un’unica grande verità: a Donald Trump del G7 non gliene frega assolutamente niente.

Vale tutto e il contrario di tutto, come dimostra una conferenza stampa di chiusura che assomiglia più a uno show televisivo che non a un momento di contatto istituzionale con il presidente degli Stati Uniti d’America.

Vale esclusivamente la vecchia regola del consenso, gliene frega soltanto delle elezioni in programma per il prossimo anno (3 novembre 2020, ndr).

I sette grandi come una colossale scusa per continuare una campagna elettorale infinita, addirittura perenne.

Si circonda dei leader, si crogiola al centro delle attenzioni mondiali e, come sempre accade, più che parlare ai suoi omologhi, parla alla sua base. Ne sposa il linguaggio, alla mano ed evidentemente fuori luogo in contesti internazionali così alti, ma efficace per raggiungere i milioni di americani che lo osservano. Quelli chiamati a riconfermarlo, gli unici che gli interessano veramente.

Per comprendere Trump bisogna mettere a fuoco uno dei suoi pochi talenti: tra gli altri, quello di infervorare le masse spostando una marea di voti.

Cosa fa, dunque?

Nulla di nuovo sotto il sole di Francia, continua a fare quello che sa fare meglio: agita e si agita a sua volta, strizza l’occhio alla destra a stelle e strisce, recita la parte di chi è costretto a sbattere i pugni sul tavolo pur di fare gli interessi di un Paese che, più che rappresentare, ostenta in maniera forzata di voler difendere a tutti i costi.

Un Paese, gli Stati Uniti, molto diverso da quello affidabile e stabile conosciuto durante l’ottennato Obama, ma comunque imprescindibile per l’intera Comunità Internazionale.

Questo il tycoon lo sa e proprio per questo sa di potersi concedere sbavature a iosa che tanto irritano i fedelissimi del politically correct e del protocollo, ma che tanto piacciono a chi gli ha consegnato le chiavi della Casa Bianca.

È un gioco a dividere, persino a spaccare.

È un gioco che Trump ha già dimostrato di saper giocare.

E, di questo sì gliene frega, di saper vincere.

 

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