di Francesco Romano Fraioli
 
Girolamo Imbruglia, Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf, Carocci, Roma, 2021, pp. 204
Rispetto agli studi classici sul tema dell’utopia, il libro di Girolamo Imbruglia vuole essere una storia squisitamente politica dell’utopia così come fu pensata e vissuta in età moderna. Nell’assumere questa prospettiva, l’utopia ci appare allora per quello che è, ovvero una «categoria politica radicalmente nuova, frutto della rivoluzione del Rinascimento» (p.
di Francesco Romano Fraioli

 

Girolamo Imbruglia, Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf, Carocci, Roma, 2021, pp. 204

Rispetto agli studi classici sul tema dell’utopia, il libro di Girolamo Imbruglia vuole essere una storia squisitamente politica dell’utopia così come fu pensata e vissuta in età moderna. Nell’assumere questa prospettiva, l’utopia ci appare allora per quello che è, ovvero una «categoria politica radicalmente nuova, frutto della rivoluzione del Rinascimento» (p. 9). Tuttavia, secondo lo studioso napoletano, questa storia non deve iniziare, come si fa tradizionalmente, con la società utopistica immaginata da Thomas More, bensì con la profezia biblica al centro delle predicazioni di Girolamo Savonarola. Giacché è proprio la critica al profetismo misticheggiante del frate domenicano che spinse More ad elaborare il concetto di utopia come risposta razionale ad un mondo contrassegnato dalla corruzione del clero e dalle ingiustizie sociali. More, che avrebbe terminato i suoi giorni da martire del cattolicesimo, non escluse ovviamente la religione dal suo orizzonte ma, nella sua celebre Utopia, la fece rivivere come una sorta di religione civile. Ed è la religione civile, ossia la credenza che legittima il potere politico facendo ricorso ad una dimensione sacra sganciata da quella terrena, il primo dei quattro temi che per Imbruglia (nella foto, in basso) caratterizzano le utopie moderne e attorno ai quali ruota tutta la sua ricostruzione storica.

Il secondo tema è quello della comunità dei beni che, integrandosi con il primo, si presentò come la soluzione capace di creare, valorizzando la naturale benevolenza umana, una società organica, solidale e completamente pacificata. In secoli come il XVI e il XVII, dilaniati da intensi conflitti e terribili violenze, la categoria di police – ed è questo il terzo tema – fu la chiave con cui il potere politico tentò di limitare, attraverso ordonnances, editti e provvedimenti, lo scontro fra gli interessi individuali o quello fra le varie fazioni in lotta nello sforzo di dare vita ad una società ordinata e sicura. Il quarto e ultimo tema individuato dall’autore riguarda il potere spirituale che, in quanto potere “produttivo”, presupponeva l’idea che il controllo dei costumi morali all’interno di una collettività non dovesse provenire solo dall’alto, ma dall’interno di ciascun individuo.

Tali temi si dispiegano lungo un percorso, nient’affatto lineare, che attraversa tutto il Cinquecento, il Seicento e il Settecento, i secoli che scandiscono i tre tempi della narrazione di Imbruglia. Il XVI secolo è principalmente segnato dal passaggio dal concetto di police a quello, teorizzato da Bodin, di sovranità, che sembrò relegare l’utopia a immaginazione filosofica o a mera fantasia letteraria senza alcun contatto con la realtà politica. Per Bodin, infatti, l’unico modo per porre fine alle guerre, soprattutto quelle di religione, era quello di affidare allo Stato un potere assoluto e perpetuo al fine di elaborare regole politiche aderenti alla realtà. In sostanza, la teoria della sovranità del francese aveva escluso la mediazione ecclesiastica tra il sacro e il potere. Alla fine del Cinquecento, in polemica con le tesi di Bodin, Botero, nel Della Ragion di Stato, riaffermò il principio cardine della police secondo il quale è la religione e non la sovranità a legittimare il governo politico. In tal senso, scrive l’autore, «si potrebbe sostenere che la Ragion di Stato stessa sia stata una nuova utopia» (p. 61).

Eppure, l’identificazione dell’utopia con la sicurezza sociale prodotta dalla police fu un’idea che non durò troppo a lungo, dal momento che con il XVII secolo si aprì una nuova fase della storia politica dell’utopia in cui essa, più che proiettarsi in spazi geografici remoti e fantastici, iniziò a fare i conti con la storia con lo scopo di edificare, appropriandosi del passato, la società ideale nel presente. A tal fine, lo strumento imbracciato, in particolare dai puritani, sarebbe stato il recupero del modello della teocrazia biblica, criticato e demolito in seguito da Spinoza nel suo Trattato teologico-politico. Ma è solo nel XVIII secolo che, con la congiura degli Eguali di Babeuf, la lunga parabola politica dell’utopia giunse a compimento. In primo luogo perché nel Settecento l’utopia assunse i contorni sia dell’anti-utopia che dell’ucronia, tratti con cui essa si sarebbe presentata anche nei secoli successivi e, in secondo luogo, perché il forte riferimento alla storia ne avrebbe sancito la piena secolarizzazione e proiezione nel futuro. Nell’originale ricostruzione di Imbruglia è Montesquieu il protagonista e lo spartiacque della storia politica dell’utopia settecentesca, in quanto fu il filosofo francese a sostituire definitivamente il mito della teocrazia con quello di una repubblica felice, libera e virtuosa realmente calata tra le pieghe della storia. Come sostiene lo storico napoletano, per quanto nello Spirito delle leggi Montesquieu non abbia descritto un’utopia, ne ha comunque «costruito la teoria» (p. 101).

Dopo Montesquieu, l’utopia settecentesca si sarebbe dipanata lungo due filoni: l’utopia philosophique (Rousseau ed Helvétius), che definì i caratteri dell’utopia repubblicana combinando l’antropologia con la storia politica e l’utopia mitologica (Morelly e Dom Deschamps) che, pensando la politica svincolata dalla storia, reintrodusse un orizzonte mitico-naturalistico. Alla fine del ‘700 sarebbe stato Babeuf a immaginare un’utopia comunista dove si sarebbero compiutamente realizzate l’eguaglianzae la libertà. Con il rivoluzionario Babeuf, per Imbruglia, la storia dell’utopia settecentesca si conclude con una sintesi di questi due filoni: la Congiura degli Eguali, spiega l’autore, aveva «ripreso le tradizioni diverse e forse irriducibili dell’utopismo moderno. Cercò di unire l’utopia repubblicana philosophique, il “mondo incantato” della società patriarcale della Nouvelle Héloïse di Rousseau, la società senza leggi e poggiante solo sulla benevolenza naturale di Morelly e dom Deschamps, le comunità contadine dell’Auvergne descritte da Faiguet e viste da Buonarroti in Corsica per trarne il fermento per un progetto pratico di trasformazione della società» (p. 167).

Dobbiamo essere grati ad Imbruglia per averci proposto, in questo agile ma denso volumetto, non una semplice introduzione alla storia del concetto di utopia, bensì di averci fornito una guida ragionata, spesso originale, per orientarci nel suo lungo e intricato percorso. E nel farlo, come si è cercato di sottolineare, egli ha posto in risalto degli autori che comunemente non vengono ricondotti alla tradizione utopistica, mettendo in opportuna evidenza le ambiguità e a volte i paradossi di questa sfaccettata e labirintica storia. Infine, occorre far notare come il libro di Imbruglia sconti comunque un debito di riconoscenza nei confronti di studiosi come Luigi Firpo o Franco Venturi, i quali presentarono gli utopisti non come degli astratti sognatori, ma piuttosto come dei coraggiosi, avveniristici pensatori che, misurandosi con la realtà del proprio tempo, seppero elaborare, nonostante le differenze, dei progetti razionali di società volti a riformare o a smantellare le vecchie strutture tradizionali in vista di un domani migliore.

Dottorando – Università “La Sapienza”, Roma

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